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Si riporta di seguito il testo della decisione emessa il 13/01/2011 dalla Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento e depositata il 25 gennaio 2011. SENTENZA 23/2011 IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO LA
CORTE COSTITUZIONALE composta
dai signori: -
Ugo
DE SIERVO
Presidente -
Paolo
MADDALENA
Giudice -
Alfio
FINOCCHIARO
" -
Alfonso
QUARANTA
" -
Franco
GALLO
" -
Luigi
MAZZELLA
" -
Gaetano
SILVESTRI
" -
Sabino
CASSESE
" -
Maria Rita
SAULLE
" -
Giuseppe
TESAURO
" -
Paolo Maria
NAPOLITANO
" -
Giuseppe
FRIGO
" -
Alessandro
CRISCUOLO
" -
Paolo
GROSSI
" -
Giorgio
LATTANZI
" ha
pronunciato la seguente SENTENZA nei
giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 7
aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire
in udienza) promossi dal Tribunale di Milano, sezione I penale e sezione
X penale, con ordinanze del 19 e del 16 aprile 2010 e dal Giudice per le
indagini preliminari presso il Tribunale di Milano con ordinanza del 24
giugno 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 173, 180 e 304 del registro
ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.
24 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti
gli atti di costituzione di S.B. nonché gli atti di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica dell’11 gennaio 2011 il Giudice relatore Sabino Cassese;
uditi gli avvocati
Niccolò Ghedini e Piero Longo per S.B. e gli avvocati dello Stato
Michele Dipace e Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei
ministri. Ritenuto
in fatto 1.
– Il Tribunale di Milano, sezione I penale, con ordinanza del 19
aprile 2010 (reg. ord. n. 173 del 2010), ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 1, 3 e 4, della
legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a
comparire in udienza), per violazione dell’art. 138 della
Costituzione. 1.1.
– Il collegio rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel
giudizio principale ha dedotto e documentato, per l’udienza del 12
aprile 2010, un legittimo impedimento a comparire, consistente
nell’impegno dell’imputato stesso a svolgere, nella sua qualità di
Presidente del Consiglio dei ministri, un viaggio di Stato. Il Tribunale
riporta inoltre che, a fronte della richiesta di ulteriori date utili
per la prosecuzione del giudizio, la difesa dell’imputato, ai sensi
della disciplina censurata, ha formulato richiesta di rinvio al 21
luglio 2010, producendo attestazione del Segretario generale della
Presidenza del Consiglio dei ministri di impedimento continuativo
dell’imputato motivato mediante riferimento esemplificativo a plurime
attività governative da svolgere nel periodo intercorrente fra il 9
aprile e il 21 luglio 2010. Il
giudice a quo espone che il pubblico ministero si è opposto alla
richiesta di rinvio, sulla base di una interpretazione logica e
sistematica della disciplina censurata, tale da consentire al giudice di
valutare l’assolutezza dell’impedimento a comparire dedotto dal
Presidente del Consiglio dei ministri. In particolare, secondo
l’interpretazione proposta dal pubblico ministero, «la mera
attestazione di un impegno continuativo e correlato all’esercizio
delle funzioni» indicate dalla disciplina censurata «non precluderebbe
al giudice l’accertamento della sussistenza in concreto
dell’assoluto impedimento a comparire dell’imputato per il periodo
indicato nell’attestazione» stessa. In subordine, secondo quanto
riferisce il Tribunale rimettente, il pubblico ministero ha dedotto
l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nell’ipotesi
in cui essa dovesse intendersi come preclusiva di un sindacato del
giudice in ordine alla sussistenza in concreto del legittimo impedimento
del Presidente del Consiglio dei ministri. Ad
avviso del giudice a quo, l’interpretazione del pubblico ministero non
può essere condivisa, in quanto la disciplina censurata qualifica come
legittimo impedimento, ai sensi dell’art. 420-ter del codice di
procedura penale, «non solo le varie attribuzioni previste dalle leggi
o dai regolamenti con riguardo alla funzione ministeriale», ma anche le
relative «attività preparatorie e consequenziali», nonché ogni «attività
comunque coessenziale alle funzioni di governo», imponendo, inoltre, il
rinvio del processo ove la Presidenza del Consiglio dei ministri «attesti
che l’impedimento è continuativo e correlato» allo svolgimento delle
suddette funzioni. Alla
luce di tali circostanze, il Tribunale rimettenteritiene che la
disciplina censurata non si limiti «ad integrare la previsione di cui
all’art. 420-ter del c.p.p.», introducendo «casi ulteriori di
legittimo impedimento legati a situazioni specificamente individuate» e
tipizzando «taluni atti o attività di governo come integranti la
fattispecie legale di impedimento», ma sostanzialmente identifichi
l’intera attività di governo «(peraltro mediante un meccanismo di
autocertificazione) con l’assoluta impossibilità a comparire». Ciò
si traduce, ad avviso del giudice a quo, nella privazione del
potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza
dell’impedimento con riferimento ad uno specifico impegno correlato
alla singola udienza. In altri termini – osserva ancora il collegio
rimettente – la definizione di legittimo impedimento di cui alla
disciplina censurata è talmente ampia e generica da risolversi in una
«presunzione assoluta di impedimento», considerata quale situazione
legata non già ad un «fatto contingente», ma ad uno «status
permanente», con conseguente venir meno della possibilità del giudice
di accertare la «sussistenza in concreto» dell’impedimento stesso. L’impossibilità
di seguire l’interpretazione proposta dal pubblico ministero rende
rilevante, ad avviso del Tribunale rimettente, la questione di
legittimità costituzionale della disciplina censurata. Secondo il
giudice a quo, tale questione sarebbe non manifestamente infondata, dal
momento che «le disposizioni in esame, introducendo una presunzione
iuris et de iure di impedimento continuativo per un lungo periodo di
tempo connessa alle funzioni di governo si sostanziano in una norma di
status derogatoria dell’ordinaria giurisdizione e dunque in una
prerogativa che richiede una copertura costituzionale». Ad
avviso del Tribunale rimettente, infatti, la disciplina censurata,
stabilendo a priori e in modo vincolante che la titolarità e
l’esercizio di funzioni pubbliche costituiscono sempre legittimo
impedimento per rilevanti periodi di tempo, prescindendo da qualsiasi
valutazione del caso concreto, si tradurrebbe nella «statuizione di una
vera e propria prerogativa dei titolari delle cariche pubbliche diretta
a tutelarne non già il diritto di difesa nel processo bensì lo status
o la funzione», realizzandosi, in tal modo, «la medesima situazione già
analizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 262 del 2009».
Inoltre, secondo il giudice a quo, la circostanza che la stessa legge
censurata indichi espressamente la propria «funzione di legge ponte»,
in vista della successiva entrata in vigore di una organica disciplina
costituzionale delle prerogative del Presidente del Consiglio dei
ministri e dei ministri, ne renderebbe esplicita «la ratio di
anticipazione di una disciplina innovativa in una materia che deve
essere necessariamente introdotta con procedimento costituzionale» e
confermerebbe, quindi, la violazione dell’art. 138 Cost. 1.2.
– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo
che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata
non fondata. 1.2.1.
– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il giudice a quo deduce
l’illegittimità costituzionale della disciplina censurata
erroneamente presupponendo che essa introduca una prerogativa o immunità
in favore del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, ciò
che, per pacifica giurisprudenza costituzionale, potrebbe avvenire solo
mediante legge costituzionale. In realtà, ad avviso della difesa dello
Stato, la finalità delle disposizioni oggetto di censura, come
emergerebbe anche dai lavori preparatori, sarebbe quella di «identificare
normativamente le attività, esercitate da soggetti che rivestono
cariche pubbliche di rilievo costituzionale, che costituiscono
impedimento a comparire nelle udienze del procedimento penale nel quale
risultano imputati». Tali disposizioni – osserva l’Avvocatura
generale dello Stato – sono quindi dirette ad integrare la disciplina
generale contenuta nell’art. 420-ter cod. proc. pen. e a «tipizzare
gli atti, o meglio le attività di governo, che si traducono in
altrettante fattispecie di legittimo impedimento». Simile tipizzazione
legislativa si rivelerebbe necessaria, secondo il punto di vista della
difesa dello Stato, allo scopo di adattare le soluzioni indicate da
questa Corte con riferimento all’impedimento a comparire dei membri
del Parlamento (sentenza n. 225 del 2001, secondo cui in particolare il
giudice «ha l’onere di programmare il calendario delle udienze in
modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi
parlamentari») alla diversa fattispecie del legittimo impedimento del
Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, le cui attività,
rispetto a quelle dei parlamentari, «si svolgono con modalità e
cadenze temporali […] più eterogenee e non facilmente preventivabili»
e sono «più soggett[e] a variazioni, atteso che l[e] stess[e] dev[ono]
tenere conto di svariate evenienze». L’intervento legislativo della
cui legittimità si dubita, secondo la difesa dello Stato, sarebbe
dunque rivolto a tipizzare, anche a fini di certezza del diritto e allo
scopo di evitare divergenti interpretazioni giurisprudenziali, «le
ipotesi in cui lo svolgimento dell’attività governativa rende
assolutamente impossibile, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai
Ministri», la comparizione in giudizio, in quanto essa precluderebbe «lo
svolgimento di attività istituzionali non delegabili». L’Avvocatura
generale dello Stato ritiene, inoltre, che la disciplina censurata, a
differenza della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia
di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche
dello Stato), non determini «in via automatica» la sospensione del
processo. In primo luogo, essa si limiterebbe a consentire
all’imputato di ottenere, «volta per volta», il rinvio
dell’udienza. In secondo luogo, le funzioni di governo in grado di
giustificare la richiesta di rinvio troverebbero un «esplicito
fondamento normativo in fonti di rango primario o secondario»
espressamente richiamate, o sarebbero comunque «adeguatamente
determinate e agevolmente individuabili atteso il loro carattere
strettamente strumentale rispetto a quelle specificamente indicate con
il richiamo delle rispettive fonti normative» (attività preparatorie,
consequenziali o comunque coessenziali alle funzioni di governo).
Infine, il giudice non sarebbe privato del potere di accertare «la
sussistenza in concreto» del legittimo impedimento, perché egli
potrebbe comunque valutare «se l’attività governativa dedotta quale
legittimo impedimento rientri fra le ipotesi previste dalle disposizioni»
censurate. Al giudice, pertanto, resterebbe solo precluso il potere di
«sindacare se le attività istituzionali indicate» da tali
disposizioni siano, «una volta provatane in fatto l’esistenza, causa
di legittimo impedimento»: se così non fosse, si avrebbe, ad avviso
dell’Avvocatura generale dello Stato, un inammissibile sindacato del
giudice penale sulle ragioni politiche sottese all’esercizio delle
attività istituzionali degli organi costituzionali. La
difesa dello Stato esclude, quindi, che la disciplina censurata
costituisca, come invece affermato dal giudice a quo, una prerogativa o
immunità tale da richiedere copertura costituzionale. Si tratterebbe,
invece, di un intervento legislativo di «modulazione» dell’istituto
generale del legittimo impedimento, che, in definitiva: «non comporta
esenzione dalla giurisdizione penale»; «non prevede una sospensione
generale e automatica del procedimento penale»; «ha, quale unico
effetto processuale, quello del rinvio del processo ad altra udienza su
richiesta di parte»; prevede un rinvio che «non ha una durata
indeterminata» e, nell’ipotesi di impedimento continuativo, comunque
«non può essere superiore a sei mesi»; «non comporta una presunzione
assoluta di legittimo impedimento, ma soltanto l’indicazione di
categorie di attività istituzionali che possono comportare la richiesta
del rinvio dell’udienza a tutela del diritto di difesa dell’imputato
in coerenza con l’esercizio dei propri doveri costituzionali»; «contiene
un ragionevole bilanciamento dei due valori costituzionali, quello
dell’esercizio della giurisdizione e quello dell’esercizio delle
attività politico-istituzionali dei membri del Governo, senza far
prevalere l’uno sull’altro e soprattutto senza sacrificarne nessuno». Né
può sostenersi, secondo la difesa dello Stato, che il rinvio effettuato
dall’art. 2 della legge n. 51 del 2010 ad una successiva organica
disciplina costituzionale delle prerogative del Presidente del Consiglio
dei ministri e dei ministri dimostri il carattere di prerogativa di
quanto disposto dalla disciplina censurata. Tale richiamo, ad avviso
dell’Avvocatura generale dello Stato, «vuol significare soltanto che
– correttamente – sarà una legge costituzionale a disciplinare le
vere prerogative dei membri del Governo», mentre, fino a quel momento,
«rimarranno in vigore specifiche previsioni di legge ordinaria (come
quella in esame) inerenti a specifici aspetti della materia che al
concetto di prerogativa non sono certo riconducibili». Del resto, il
disegno di legge costituzionale effettivamente presentato (A.S. n. 2180,
recante «Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei
confronti delle alte cariche dello Stato»), costituisce, secondo
l’Avvocatura generale dello Stato, un intervento legislativo che ha un
contenuto ben diverso rispetto a quello della disciplina censurata. Il
disegno di legge, infatti, disporrebbe «la sospensione della
giurisdizione nei confronti delle alte cariche dello Stato al fine di
fornire una obiettiva protezione del regolare svolgimento delle attività
connesse alla carica stessa». La legge n. 51 del 2010, invece,
prevederebbe un impedimento a comparire «in caso di concomitante
esercizio di una o più attribuzioni previste dalle leggi e dai
regolamenti» per le alte cariche, senza «sospende[re] l’esercizio
della giurisdizione», né «crea[re] un particolare status giuridico
per tale carica», ma limitandosi a disporre un «rinvio dell’udienza
con conseguente sospensione della prescrizione per l’intera durata del
rinvio». Infine,
secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la scelta normativa, «particolarmente
stigmatizzata dal giudice a quo», di attribuire alla Presidenza del
Consiglio dei ministri il compito di attestare la continuatività e la
correlazione con lo svolgimento delle funzioni governative
dell’impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, troverebbe
invece giustificazione «nella necessità ed opportunità di attribuire
tale delicato compito ad un soggetto […] distinto rispetto al
Presidente del Consiglio dei Ministri coinvolto nel processo penale come
imputato», mentre sarebbe stato «irragionevole» lasciare a quest’ultimo
«il compito di autocertificare che l’impedimento presenta carattere
continuativo». 1.2.2.
– In data 23 novembre 2010, l’Avvocatura generale dello Stato ha
depositato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, memoria
illustrativa, ribadendo le ragioni dedotte con l’atto di intervento e
insistendo per l’inammissibilità e l’infondatezza della questione
di legittimità costituzionale sollevata. La
difesa dello Stato deduce l’inammissibilità della questione
sostenendo, in primo luogo, che l’ordinanza di rimessione non
preciserebbe i fatti del processo a quo, né indicherebbe i reati per i
quali esso viene celebrato, in tal modo non permettendo a questa Corte
di valutare la rilevanza della questione, se non violando il principio
di autosufficienza dell’atto di rimessione. Il giudice rimettente, in
secondo luogo, ad avviso della difesa statale, non avrebbe «spiegato
perché non potesse decidere sulla richiesta di rinvio dell’udienza,
formulata dalla difesa dell’imputato […] in quanto quest’ultimo
era assolutamente impossibilitato a presenziare alla medesima udienza
per legittimo impedimento concretatesi in impegni istituzionali
specificamente indicati dall’attestazione del Segretario generale
della Presidenza del Consiglio dei ministri e facilmente accertabili da
parte del Tribunale indipendentemente dalla risoluzione della
pregiudiziale costituzionale avente ad oggetto l’art. 1, commi 1, 3 e
4, della legge n. 51 del 2010». Secondo l’Avvocatura generale dello
Stato, quindi, il giudice a quo non avrebbe fornito alcuna
giustificazione in relazione al fatto che l’istanza difensiva non
potesse essere valutata e decisa alla stregua della disciplina di cui
all’art. 420-ter cod. proc. pen. La questione, pertanto, sarebbe stata
proposta non all’esito della necessaria verifica della sua rilevanza,
bensì «per sindacare la legittimità costituzionale di una norma di
legge senza fornire la prova della incidenza della stessa in concreto
sul processo in corso». Nel
merito, la difesa dello Stato ribadisce quanto dedotto nell’atto di
intervento, rimarcando che le disposizioni della legge n. 51 del 2010
non si discosterebbero dalla logica dell’art. 420-ter cod. proc. pen.,
«di cui precisano soltanto alcune fattispecie di impedimento e pertanto
non hanno la finalità di proteggere la funzione pubblica, in sé e per
sé considerata, creando una prerogativa ovvero un’immunità per
specifici imputati, ma sono volte a tutelare il diritto di difesa
dell’imputato che in un determinato periodo di tempo (es. giorno
dell’udienza) è impedito a partecipare al processo per un proprio
impegno istituzionale non prorogabile». La normativa censurata, secondo
l’Avvocatura generale dello Stato, non introduce alcuna forma di
immunità, ma «specifica, tipizzandola (e, peraltro, riducendola
significativamente)» la portata dell’istituto dell’impedimento a
comparire già previsto dall’art. 420-ter cod. proc. pen. Né potrebbe
dirsi, sostiene la difesa dello Stato, che si sia dinanzi a una
presunzione iuris et de iure, in base alla quale la legge n. 51 del 2010
avrebbe privato il giudice del potere di qualsiasi valutazione con
riferimento al caso concreto, dal momento che «il giudice è tenuto ad
accertare quando ricorrono le ipotesi previste dall’art. 1, comma 1,
della legge e rinviare il processo solo accertata la sussistenza di tali
casi». 1.3.
– Si è costituito in giudizio, con atto depositato in data 5 luglio
2010, l’imputato nel giudizio principale, chiedendo che la questione
di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata inammissibile o,
comunque, manifestamente infondata. 1.3.1.
– L’imputato nel giudizio principale eccepisce, innanzitutto,
l’inammissibilità della questione sollevata, in ragione della omessa
descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale, tale da
non permettere alla Corte di valutarne compiutamente la rilevanza. Egli
nega che, in relazione alle norme processuali, risulti attenuato
l’obbligo del giudice a quo di descrivere puntualmente la fattispecie
sottoposta al suo esame e comunque ritiene che, ove pure si volesse
aderire a tale tesi, la mancata descrizione della fattispecie sarebbe,
nel caso in esame, così «drastica» da determinare comunque
l’inammissibilità della questione. Sostiene la parte privata,
infatti, che l’ordinanza di rimessione: non chiarisce a quali reati si
riferisce l’imputazione, né dove e quando gli stessi sarebbero stati
commessi, né se siano contestate ipotesi di concorso con altre persone;
non fornisce una puntuale descrizione della «condizione soggettiva che
legittima l’applicazione » della norma censurata; non indica lo stato
in cui si trova il processo che si sta celebrando dinanzi al giudice a
quo. Ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, in virtù del
principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali
elementi, di cui la Corte «deve avere necessariamente contezza […]
per comprendere l’impatto che l’applicazione» della disciplina
censurata potrebbe avere sul giudizio principale, neppure potrebbero
essere ricavati «ricorrendo alle deduzioni delle altre parti
intervenute, o alla visione diretta del fascicolo, o, addirittura, a
fatti ritenuti notori». L’imputato
nel giudizio principale, inoltre, deduce, quale ulteriore ragione di
inammissibilità, il difetto della rilevanza in concreto della questione
sollevata dal giudice rimettente, per aversi la quale sarebbe «necessario
che l’interpretazione non costituzionale della legge, oltre ad essere
l’unica possibile, supporti ed orienti l’applicazione che nel
medesimo contesto il giudice si accingerebbe a farne». Ciò non
accadrebbe nel caso in esame, nel quale la difesa dell’imputato,
all’udienza del 12 aprile 2010, da un lato, ha prospettato un
legittimo impedimento per il giorno stesso, rappresentato da un viaggio
di Stato a Washington D.C., negli Stati Uniti d’America, e,
dall’altro lato, ha prodotto attestazione del Segretario generale
della Presidenza del Consiglio dei ministri di legittimo impedimento
continuativo fino al successivo 21 luglio. Alla
luce di tali circostanze, secondo l’imputato nel giudizio principale,
la rilevanza in concreto difetterebbe per due ragioni. In
primo luogo, la questione sarebbe stata sollevata «prematuramente
rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla
disciplina censurata, in considerazione della «sussistenza
dell’impedimento puntuale, valevole hic et nunc per l’udienza del 12
aprile 2010, dato dal viaggio di Stato a Washington». L’imputato nel
giudizio principale chiarisce che l’attestazione della Presidenza del
Consiglio dei ministri è stata prodotta al solo fine di indicare, per
la prosecuzione del giudizio, i giorni del 21 e del 28 luglio, date che
però il Tribunale rimettente non avrebbe neppure preso in
considerazione, sollevando invece direttamente – e quindi
prematuramente – la questione di legittimità costituzionale della
disciplina censurata. In
secondo luogo, l’imputato nel giudizio principale rileva che, ove pure
«si ritenesse che la mera esibizione dell’attestazione […]
equivalga a una richiesta di applicazione della stessa, pur in presenza
di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno
dell’udienza in cui avviene detta esibizione», tale attestazione si
è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di
tempo di poco più di tre mesi, inferiore quindi al periodo massimo di
sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe
avuto quindi, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la
questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata
in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè
di una disciplina che produce una sospensione del dibattimento per tre
mesi, mentre il giudice a quo – rileva la parte privata - «discetta
in astratto di “rilevanti periodo di tempo” in cui potrebbe essere
fatto valere il legittimo impedimento». Nel
merito, l’imputato nel giudizio principale ritiene che il Tribunale
rimettente abbia sollevato la questione di legittimità costituzionale
della disciplina censurata sulla base dell’erroneo presupposto che
essa abbia introdotto un meccanismo che, «al di là dell’evocazione
del nomen di legittimo impedimento, costituirebbe in realtà una
prerogativa connessa alla carica costituzionale di Presidente del
Consiglio dei ministri e richiederebbe pertanto una fonte di rango
costituzionale». Innanzitutto,
la circostanza su cui il Tribunale rimettente fonderebbe questo assunto,
cioè l’asseritamente prevista sottrazione del potere-dovere del
giudice di verificare la sussistenza dell’impedimento, è negata
dall’imputato nel giudizio principale. Questi infatti osserva come «nulla
viet[i] al giudice, al quale venga esibita l’attestazione della
Presidenza del Consiglio dei Ministri» di cui alla disciplina
censurata, «sia di controllare l’autenticità della stessa, sia di
chiedere […] ulteriori precisazioni in merito all’attività di
governo che deve essere compiuta», restandogli soltanto preclusa la
possibilità «di sindacare il merito dell’attività di governo,
giudicandola più o meno importante e necessaria», ciò che peraltro
contrasterebbe anche con il principio di separazione dei poteri. Inoltre,
la «facoltà del giudice di entrare nel merito della fondatezza del
legittimo impedimento», ad avviso dell’imputato nel giudizio
principale, non sarebbe «così coessenziale alla natura stessa
dell’istituto» da far escludere che possa rientrare nella categoria
del legittimo impedimento (e non in quella della prerogativa
costituzionale) anche «un’ipotesi di impedimento qualificato a monte
come legittimo da una fonte di rango ordinario, rispetto al quale il
giudice possa solo verificare se si versi o meno nei casi previsti dalla
legge». Ragionando in via analogica, l’imputato nel giudizio
principale ritiene che non potrebbe ritenersi preclusa al legislatore
ordinario «la compilazione di un elenco di patologie invalidanti in
presenza delle quali il giudice fosse costretto a riconoscere il
legittimo impedimento dell’imputato che ne sia affetto», potendo «disporre
accertamenti sulla veridicità del certificato», ma senza «sindacare
la ragionevolezza della scelta legislativa di inserire nell’elenco una
patologia piuttosto che un’altra». Una simile disciplina, infatti, «non
cancellerebbe la natura di legittimo impedimento» dell’imputato «affetto
da una delle patologie legislativamente previste, per trasformare questa
evenienza in una prerogativa per quel tipo di malati». Ad
avviso dell’imputato nel giudizio principale, dunque, il Tribunale
rimettente, nel negare che la disciplina censurata preveda una ipotesi
di legittimo impedimento, muoverebbe da un presupposto giuridico errato
e, di conseguenza, evocherebbe un parametro costituzionale (art. 138
Cost.) non pertinente, dal momento che «nessuno può seriamente
dubitare che una tipizzazione da parte del legislatore di alcuni casi di
legittimo impedimento debba e possa avvenire con legge ordinaria».
Quest’ultima – osserva ancora l’imputato nel giudizio principale
– deve realizzare un ragionevole bilanciamento fra i valori
costituzionali in gioco (diritto di difesa e obbligatorietà
dell’azione penale e ragionevole durata del processo), che è oggetto
di sindacato da parte della Corte costituzionale. Ma l’ordinanza di
rimessione trascurerebbe completamente di considerare il profilo della
«ragionevolezza del concreto bilanciamento di interessi operato» dalla
disciplina censurata, rimanendo invece «ancorata al pregiudizio della
“prerogativa dei titolari delle cariche pubbliche diretta a tutelare
non già il diritto di difesa del processo bensì lo status e le
funzioni”». La
tesi che la disciplina censurata introduca una prerogativa
costituzionale sarebbe ulteriormente contraddetta, ad avviso della parte
privata, dal suo carattere temporaneo: una normativa destinata «a
dispiegare i propri effetti nell’ordinamento al più per i diciotto
mesi successivi alla sua pubblicazione», infatti, non potrebbe «integrare
una prerogativa costituzionale, a meno di non voler pensare che le
prerogative costituzionali possano avere una scadenza». Né
la tesi della prerogativa costituzionale potrebbe trarre conforto dalla
circostanza che la disciplina censurata «preannuncia una riforma
costituzionale» delle prerogative del Presidente del Consiglio dei
ministri e dei ministri. Secondo l’imputato nel giudizio a quo, tale
argomento, adoperato dal giudice rimettente, «equipara in modo del
tutto arbitrario il contenuto» della normativa oggetto di censura con
quello della futura disciplina costituzionale. Quest’ultima, secondo
l’imputato nel giudizio principale, nel dettare una disciplina
costituzionale organica delle prerogative dei membri del Governo potrà
regolare «anche […] l’interazione fra le suddette prerogative e
[…] istituti previsti da leggi ordinarie […] quali il legittimo
impedimento». Ma ciò non significa che le disposizioni censurate
intendano «anticipare a livello di legge ordinaria gli effetti di una
riforma costituzionale». Esse, invece, secondo la parte privata,
risponderebbero allo scopo di «regolare in modo estremamente
equilibrato un lasso di tempo intermedio fra la mancanza assoluta di una
disciplina che si occupi delle eventuali difficoltà che il Presidente
del Consiglio dei ministri e i Ministri possono trovare a difendersi
efficacemente in un processo penale che li veda imputati e
l’approvazione di una legge costituzionale che ridefinisca lo status
di queste cariche». Il
carattere equilibrato del contemperamento di interessi realizzato dalla
disciplina transitoria censurata sarebbe inoltre dimostrato, ad avviso
dell’imputato nel giudizio a quo, dalle seguenti ulteriori
circostanze. In primo luogo, la disciplina prevede la sospensione del
decorso della prescrizione, con la conseguenza che per effetto del
legittimo impedimento «la situazione processuale viene semplicemente
congelata senza alcun effetto pregiudizievole sul piano sostanziale».
In secondo luogo, l’applicazione concreta di tale disciplina nel
giudizio a quo permetterebbe presumibilmente di realizzare un equo
bilanciamento degli interessi in gioco, atteso che l’imputato nel
processo principale si è raramente avvalso dell’istituto del
legittimo impedimento, permettendo così la celebrazione di ben 83
udienze. Infine, il periodo massimo di differimento del processo,
consentito dalle disposizioni oggetto di censura, è di appena sei mesi,
che è intervallo di tempo assai più breve rispetto al periodo di
sospensione che si determina per effetto della remissione alla Corte
costituzionale della questione di legittimità sollevata dal giudice a
quo. 1.3.2.
– In data 22 novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha
depositato memoria illustrativa, ribadendo l’infondatezza della
questione. Nella memoria, la parte privata illustra le vicende del
processo a quo, in relazione alla celebrazione delle udienze e alle
richieste di rinvio fino al giorno 19 aprile 2010, al dichiarato fine di
consentire a questa Corte di «valutare la ragionevolezza di quanto
deciso dal Tribunale di Milano a fronte di una richiesta di rinvio
corredata anche dall’indicazione di possibili date per la celebrazione
delle successive udienze». Dalle vicende del giudizio principale
emergerebbe come «la difesa abbia rigorosamente interpretato quei
canoni ermeneutici offerti» dalla Corte «per individuare il concetto
di leale collaborazione processuale, concordando le date, non
frapponendo impedimenti pretestuosi, consentendo la celebrazione delle
udienze anche quando l’imputato era impedito, se la sua partecipazione
non era oggettivamente necessaria». Con osservazioni estese anche ai
giudizi di cui al reg. ord. nn. 180 e 304 del 2010, inoltre, la parte
privata sostiene che i rinvii richiesti per legittimo impedimento
sarebbero stati sempre limitati e rispettosi dell’attività
giudiziaria e che le attestazioni fornite sono state sempre assai
inferiori al termine massimo dei sei mesi. Sarebbe quindi stato
sufficiente, conclude la difesa dell’imputato nel giudizio principale,
applicare i canoni di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. per poter
continuare i processi. 2.
– Il Tribunale di Milano, sezione X penale, con ordinanza del 16
aprile 2010 (reg. ord. n. 180 del 2010), ha sollevato questione di
legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge n. 51 del
2010, per violazione degli artt. 3 e 138 Cost. 2.1.
– Il collegio rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel
giudizio principale, al quale è contestato il reato di cui agli artt.
110, 319, 319-ter e 321 del codice penale, ha anticipato via fax, in
data 14 aprile 2010, una richiesta di rinvio dell’udienza del 16
aprile (data che era stata indicata dal Tribunale, nel corso della
precedente udienza del 27 febbraio 2010, insieme a quelle, successive,
del 30 aprile, 7 maggio, 12 maggio e 29 maggio del 2010), deducendo
legittimo impedimento consistente nell’impegno a presiedere il
Consiglio dei ministri convocato per lo stesso giorno. Il Tribunale
rimettente espone che, nel corso dell’udienza del 16 aprile, la difesa
dell’imputato nel giudizio principale ha prodotto copia dell’ordine
del giorno del Consiglio dei ministri (datato 14 aprile 2010) e ha
esibito l’originale, producendo copia, «dell’attestazione del
Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri relativa
alla continuatività dell’impedimento correlato allo svolgimento delle
funzioni di governo» ai sensi della legge censurata. Il giudice a quo
riferisce, inoltre, che il pubblico ministero ha domandato il rigetto
della richiesta di rinvio, negando il carattere assoluto
dell’impedimento alla luce dei punti posti all’ordine del giorno
della seduta del Consiglio dei ministri del 14 aprile 2010 e della
circostanza per cui l’impedimento è intervenuto successivamente alla
fissazione concordata del calendario del processo, mentre la difesa
dell’imputato ha ribadito la rilevanza dei temi posti all’ordine del
giorno del Consiglio dei ministri e, dunque, il carattere assoluto
dell’impedimento. Ad
avviso del Tribunale rimettente, ai fini della decisione sulla richiesta
di rinvio e della prosecuzione del dibattimento, è «imprescindibile»
accertare preliminarmente se, in applicazione della disciplina
legislativa censurata, il giudice «mantenga», conformemente alla
natura stessa dell’«istituto generale» del legittimo impedimento di
cui all’art. 420-ter cod. proc. pen., «il potere-dovere di verificare
l’effettiva sussistenza dell’impedimento», mediante un «accertamento
di fatto da effettuarsi caso per caso e in concreto». La disciplina
censurata, secondo il collegio rimettente, sottrae al giudice tale
potere di valutazione. Essa, infatti, non contiene una «disciplina[..]
presuntiva[…]» dell’istituto «in relazione a specifiche situazioni
di fatto» e «coerente[…] con il sistema delineato dall’art.
420-ter di applicazione generale». L’art. 1, comma 1, della legge n.
51 del 2010, ad avviso del giudice a quo, «stila[…] un elenco» di
impedimenti legittimi che include anche le «attività preparatorie e
consequenziali, nonché […] ogni attività comunque coessenziale alle
funzioni di governo». La «genericità» di tale formulazione
limiterebbe la possibilità del giudice di apprezzare l’effettività
dell’impedimento rispetto alla singola udienza, ciò che risulterebbe
rafforzato dal dettato del comma 4 del medesimo art. 1, secondo cui «il
giudice rinvia il processo a seguito di certificazione che attesti che
l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle
funzioni» di governo. Da tutto ciò il collegio rimettente conclude
che, in base alla disciplina censurata, «il rinvio è imposto da
ragioni genericamente indicate e insindacabili dalla autorità
giudiziaria e si traduce in una causa automatica di rinvio del
dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del diritto di difesa,
per il quale l’istituto del legittimo impedimento a comparire è
previsto». Né può seguirsi, secondo il Tribunale rimettente, una
diversa interpretazione della legge censurata, tale da «salvaguarda[re]
il sindacato del giudice in ordine alla natura dell’impedimento e alla
sua continuatività»: una simile interpretazione, infatti, «si
risolverebbe in una sostanziale disapplicazione della nuova legge» e
contrasterebbe con la volontà del legislatore, quale espressamente
palesata dall’art. 2 della legge censurata, secondo il quale «le
nuove disposizioni si applicano al fine di consentire al Presidente del
Consiglio dei Ministri e ai Ministri il sereno svolgimento delle
funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge». Alla
luce di tali circostanze, il Tribunale rimettente ritiene che il
meccanismo processuale previsto dalla disciplina censurata, sebbene
qualificato come legittimo impedimento, rappresenti in realtà una «nuova
prerogativa», «connessa all’esercizio delle cariche costituzionali
di Presidente del Consiglio dei Ministri e di Ministro», e consistente
in una «causa di sospensione del processo». Ma – osserva il giudice
a quo – la previsione di una simile prerogativa, in quanto «derogatoria
al principio di eguale sottoposizione alla legge e alla giurisdizione di
tutti i cittadini», non può avvenire con legge ordinaria. Essa
richiede necessariamente una fonte costituzionale, come affermato da
questa Corte con la sentenza n. 262 del 2009 e come del resto
riconosciuto dalla medesima disciplina censurata, che ha carattere
temporaneo ed è rivolta ad anticipare gli effetti di una legge
costituzionale recante una disciplina organica delle prerogative del
Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri. 2.2.
– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo
che la Corte dichiari la questione di legittimità costituzionale
sollevata inammissibile, in relazione all’art. 3 Cost., e comunque non
fondata, in relazione al medesimo art. 3, nonché all’art. 138 Cost. 2.2.1.
– Quanto all’asserita lesione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura
generale dello Stato eccepisce preliminarmente la manifesta
inammissibilità della questione, per non avere «il Tribunale
rimettente esplicitato i motivi che fonderebbero la predetta violazione».
Nel merito, la difesa dello Stato ritiene che le disposizioni censurate
prevedano un «trattamento differenziato per i titolari delle cariche
ivi indicate del tutto conforme al richiesto requisito della
ragionevolezza e proporzionalità», essendo tali disposizioni dirette a
pervenire, con specifico riferimento alla fattispecie del legittimo
impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri imputato «ad un
ragionevole bilanciamento fra le due esigenze, entrambe di valore
costituzionale, della speditezza del processo e della integrità
funzionale dell’organo costituzionale». Né può ritenersi, secondo
l’Avvocatura generale dello Stato, che la violazione dell’art. 3
Cost. dipenda da una illegittima differenziazione della posizione del
Presidente del Consiglio dei ministri rispetto a quella dei ministri,
dal momento che la disciplina censurata si riferisce ad entrambe le
cariche. Con
riguardo, invece, alla lamentata violazione dell’art. 138 Cost.,
l’Avvocatura generale dello Stato deduce la non fondatezza della
censura sulla base di argomenti testualmente identici a quelli svolti
nell’atto di intervento riferito all’ordinanza di rimessione di cui
al reg. ord. n. 173 del 2010. 2.2.2.
– In data 23 novembre 2010, l’Avvocatura generale dello Stato ha
depositato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, memoria
illustrativa, ribadendo le ragioni dedotte con l’atto di intervento a
sostegno dell’inammissibilità e dell’infondatezza della questione
di costituzionalità sollevata. La difesa dello Stato formula ulteriori
osservazioni in ordine alla manifesta inammissibilità e alla
infondatezza della questione, sulla base di argomenti testualmente
identici a quelli dedotti nella memoria riferita all’ordinanza di
rimessione di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. 2.3.
– Si è costituito in giudizio, con atto depositato in data 5 luglio
2010, l’imputato nel giudizio principale, chiedendo che la Corte
dichiari inammissibile o, comunque, manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale sollevata. 2.3.1.
– L’imputato nel giudizio principale eccepisce, innanzitutto,
l’inammissibilità della questione sollevata, in ragione della omessa
descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale, tale da
non permettere alla Corte di valutarne compiutamente la rilevanza. In
particolare, l’ordinanza di rimessione conterrebbe, ad avviso
dell’imputato nel giudizio principale, una «laconica indicazione
degli articoli del codice penale contestati all’imputato e delle
coordinate spazio-temporali del capo di imputazione» e non fornirebbe
una puntuale descrizione della «condizione soggettiva che legittima
l’applicazione» della norma censurata, né dello stato in cui si
trova il processo che si sta celebrando dinanzi al giudice a quo.
Secondo l’imputato nel giudizio principale, in virtù del principio di
autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali elementi, di cui la
Corte «deve avere necessariamente contezza per potersi pronunciare»,
non potrebbero essere ricavati «ricorrendo alle deduzioni delle altre
parti intervenute, o alla visione diretta del fascicolo del giudizio
principale, o, addirittura, a fatti ritenuti notori». L’imputato
nel giudizio principale deduce poi, quale ulteriore ragione di
inammissibilità, il difetto della rilevanza in concreto della questione
sollevata dal giudice rimettente, per aversi la quale sarebbe «necessario
che l’interpretazione non costituzionale della legge, oltre ad essere
l’unica possibile, supporti ed orienti l’applicazione che nel
medesimo contesto il giudice si accingerebbe a farne». Ciò non
accadrebbe nel caso in esame, nel quale la difesa dell’imputato,
all’udienza del 16 aprile 2010, da un lato, ha prospettato un
legittimo impedimento per il giorno stesso, costituito dalla
concomitante riunione del Consiglio dei ministri, e, dall’altro lato,
ha prodotto attestazione del Segretario generale della Presidenza del
Consiglio dei ministri di legittimo impedimento continuativo fino al 21
luglio 2010. Sulla
base di tali circostanze, secondo l’imputato nel giudizio principale,
la rilevanza in concreto difetterebbe per due ragioni. In
primo luogo, la questione sarebbe stata sollevata «prematuramente
rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla
disciplina censurata, in considerazione della «sussistenza
dell’impedimento puntuale, valevole hic et nunc per l’udienza del 16
aprile 2010, dato dalla concomitante riunione del Consiglio dei Ministri».
L’imputato nel giudizio principale chiarisce che l’attestazione
della Presidenza del Consiglio dei ministri è stata prodotta al solo
fine di indicare, per la prosecuzione del giudizio, i giorni del 21 e
del 28 luglio 2010, date che però il Tribunale rimettente non avrebbe
neppure preso in considerazione, sollevando invece direttamente – e
quindi prematuramente – la questione di legittimità costituzionale
della disciplina censurata. In
secondo luogo, l’imputato nel giudizio principale rileva che, ove pure
«si ritenesse che la mera esibizione dell’attestazione […]
equivalga a una richiesta di applicazione della stessa, pur in presenza
di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno
dell’udienza in cui avviene detta esibizione», tale attestazione si
è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di
tempo di poco più di tre mesi, inferiore quindi al periodo massimo di
sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe
quindi avuto, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la
questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata
in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè
di una disciplina che produce una sospensione del dibattimento per tre
mesi, mentre il giudice a quo «discetta in astratto di “rilevanti
periodo di tempo” in cui potrebbe essere fatto valere il legittimo
impedimento». Nel
merito, la parte privata sostiene che la questione di legittimità
costituzionale, sollevata dal Tribunale rimettente in relazione
all’art. 138 Cost., sia manifestamente infondata, per le ragioni
indicate, con argomenti testualmente identici, nell’atto di
costituzione relativo al giudizio di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. Relativamente,
invece, all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., la parte privata
osserva che «manca nell’ordinanza di rimessione qualunque valutazione
relativa al tertium comparationis […] nonché alla ragionevolezza del
bilanciamento di interessi operato» dalla disciplina censurata. Sotto
il primo profilo, viene rilevato che l’ordinanza di rimessione non
chiarisce quali siano i soggetti rispetto ai quali la disciplina
censurata «creerebbe sperequazioni: se rispetto al semplice cittadino,
o ad altre cariche dello Stato, o a un Presidente del Consiglio dei
Ministri e a dei Ministri tutelati da vere immunità costituzionali». Sotto
il secondo profilo, si osserva come il giudice a quo si limiti ad
affermare che il meccanismo processuale denunciato è «causa automatica
di rinvio del dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del
diritto di difesa», senza però impiegare alcuna altra argomentazione
«per dare sostanza e contenuto all’asserita sproporzione» e,
soprattutto, senza considerare il carattere temporaneo e transitorio
della disciplina denunciata, suscettibile di influenzare
significativamente il giudizio sulla ragionevolezza del bilanciamento di
interessi da essa operato. 2.3.2.
– In data 22 novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha
depositato memoria illustrativa, insistendo perché la questione di
legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata non fondata. La
parte privata, in particolare, illustra le vicende del processo a quo,
in relazione alla celebrazione delle udienze e alle richieste di rinvio,
riproducendo le medesime argomentazioni svolte nella memoria riferita al
giudizio di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. 3.
– Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di
Milano, con ordinanza del 24 giugno 2010 (reg. ord. n. 304 del 2010), ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della
legge n. 51 del 2010, per violazione dell’art. 138 Cost. 3.1.
– Il giudice rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel
giudizio principale ha avanzato, ai sensi della disciplina censurata,
istanza di differimento dell’udienza preliminare alla data del 27
luglio 2010, producendo una attestazione della Segreteria della
Presidenza del Consiglio dei ministri in cui viene dato atto di un
impedimento continuativo, fino alla suddetta data, correlato alle
funzioni di governo che l’imputato stesso è chiamato a svolgere nella
sua qualità di attuale Presidente del Consiglio dei ministri. Il
giudice a quo espone, inoltre, che, a fronte di tale richiesta di
differimento, il pubblico ministero ha chiesto la fissazione di un
calendario di udienze per i successivi mesi di settembre e ottobre e la
difesa dell’imputato ha offerto la propria disponibilità, tuttavia
precisando che «un’eventuale programmazione delle udienze dovrà
comunque essere modulata sulla base dei futuri impegni istituzionali del
proprio assistito, allo stato non individuabili». Il
giudice rimettente ritiene che, ai fini della decisione sull’istanza
di differimento dell’udienza preliminare, occorra preliminarmente
stabilire se, alla luce della disposizione legislativa censurata, «il
giudice conservi il potere, stabilito dall’art. 420-ter del codice di
procedura penale, di sindacare caso per caso se l’impedimento
legittimo possa ritenersi assoluto per tutto il periodo in cui viene
rappresentato e, come tale, legittimare la richiesta di rinvio
dell’udienza». A tal fine, ad avviso del giudice a quo, la legge
censurata deve essere interpretata tenendo conto della «ratio» dalla
medesima indicata all’art. 2, cioè quella di regolare «le
prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri e degli stessi
Ministri in vista del sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite
[…] in attesa di una legge di rango costituzionale che valga ad
attuarne un’organica e definitiva regolamentazione». Alla luce di
tale circostanza, il giudice rimettente ritiene che, «a fronte di una
certificazione governativa in cui vengano indistintamente richiamati gli
impegni istituzionali non rinviabili presenti nell’agenda del
Presidente del Consiglio dei ministri per un determinato arco temporale,
senza alcun preciso riferimento in ordine alla relativa natura,
frequenza e durata, al giudice sia precluso ogni sindacato in merito al
carattere assoluto dell’impedimento così rappresentato». Tuttavia,
una simile qualificazione legislativa, vincolante per il giudice, di «legittimo
impedimento continuativo correlato alle funzioni governo», si
tradurrebbe in pratica, ad avviso del giudice rimettente, in una «sorta
di temporanea esenzione dalla giurisdizione penale destinata a perdurare
per tutto il tempo in cui l’incarico governativo viene ad essere
ricoperto». Tale deroga al comune regime giurisdizionale costituirebbe
una prerogativa in favore dei componenti di un organo costituzionale
che, secondo quanto affermato da questa Corte, può essere introdotta
solo con legge costituzionale. Del resto – osserva ancora il giudice a
quo – lo stesso art. 2 della legge censurata, «nel rappresentarne il
carattere temporaneo, pare essere consapevole della necessità che
l’organico assetto delle prerogative dei componenti del Consiglio dei
ministri sia attuato attraverso il meccanismo previsto dall’art. 138
Cost.». L’asserita violazione di quest’ultima disposizione
costituzionale induce pertanto il giudice rimettente a sollevare
d’ufficio, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, la
questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata, la
quale, in quanto legge ordinaria, non potrebbe, «neppure per un periodo
di tempo limitato, anticipare gli effetti di una legge di rango
costituzionale». 3.2.
– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo
che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata
inammissibile o, comunque, non fondata. La
difesa dello Stato eccepisce innanzitutto l’inammissibilità «per
difetto di rilevanza in concreto della questione di costituzionalità
dedotta». L’Avvocatura generale dello Stato osserva, infatti, che,
come emerge della stessa ordinanza di rimessione, alla richiesta di
differimento dell’udienza preliminare per l’attestato impedimento
dell’imputato, nessuna delle parti si è opposta, compreso il pubblico
ministero, che ha chiesto la fissazione di un calendario di udienze per
i successivi mesi di settembre e ottobre. In tale contesto, ad avviso
della difesa dello Stato, il giudice rimettente avrebbe dovuto
preliminarmente valutare la richiesta di rinvio ai sensi della norma
generale di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. e, solo in caso di
ritenuta inapplicabilità di tale disposizione, verificare
l’applicabilità della norma speciale censurata. Secondo
l’Avvocatura generale dello Stato, invece, il giudice rimettente
avrebbe proceduto, «in astratto» e «senza fornire alcuna indicazione
in ordine alla rilevanza della stessa con riferimento al processo in
questione», a sollevare la questione di legittimità costituzionale
della norma censurata, che si rivelerebbe, pertanto, inammissibile. Nel
merito, l’Avvocatura generale dello Stato deduce la non fondatezza
della questione sollevata sulla base di argomenti testualmente identici
a quelli svolti nell’atto di intervento riferito all’ordinanza di
rimessione di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. La difesa dello Stato
esclude, in particolare, che la disciplina censurata possa costituire
una prerogativa costituzionale. Essa infatti sarebbe rivolta ad
integrare la disciplina dell’istituto processuale generale del
legittimo impedimento, il quale può ben essere regolato con legge
ordinaria in quanto «prescinde dalla natura dell’attività che
legittima l’impedimento medesimo, [è] di generale applicazione e
pertanto non deroga al comune regime giurisdizionale». 3.3.
– Si è costituito in giudizio, con atto depositato in data 26 ottobre
2010, l’imputato nel giudizio principale, chiedendo che la Corte
dichiari inammissibile o, comunque, manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale sollevata. 3.3.1.
– L’imputato nel giudizio principale eccepisce, innanzitutto,
l’inammissibilità della questione sollevata, in ragione della omessa
descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale, tale da
non permettere alla Corte di valutarne compiutamente la rilevanza. In
particolare, l’ordinanza di rimessione, ad avviso dell’imputato nel
giudizio principale, non indicherebbe i reati contestati e il luogo e
tempo della loro commissione, né fornirebbe una puntuale descrizione
della «condizione soggettiva che legittima l’applicazione» della
norma censurata e dello stato in cui si trova il processo che si sta
celebrando dinanzi al giudice a quo. Secondo l’imputato nel giudizio
principale, in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza
di rimessione, tali elementi, di cui la Corte «deve avere
necessariamente contezza per potersi pronunciare», non potrebbero
essere ricavati «ricorrendo alle deduzioni delle altre parti
intervenute, o alla visione diretta del fascicolo del giudizio
principale, o, addirittura, a fatti ritenuti notori». L’imputato
nel giudizio principale deduce poi, quale ulteriore ragione di
inammissibilità, il difetto della rilevanza in concreto della questione
sollevata dal giudice rimettente. Rileva al proposito la parte privata,
integrando la descrizione asseritamente imprecisa contenuta
nell’ordinanza di rimessione, che, nel caso in esame, la difesa
dell’imputato, all’udienza del 24 giugno 2010, da un lato, ha
prospettato un legittimo impedimento per il giorno stesso, costituito
dalla concomitante riunione del Consiglio dei ministri e dalla
successiva partenza per un vertice internazionale in Canada, e,
dall’altro lato, ha prodotto attestazione del Segretario generale
della Presidenza del Consiglio dei ministri di legittimo impedimento
continuativo fino al 27 luglio 2010. Sulla
base di tali circostanze, secondo l’imputato nel giudizio principale,
la rilevanza in concreto difetterebbe per due ragioni. In
primo luogo, la questione sarebbe stata sollevata «prematuramente
rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla
disciplina censurata, in considerazione della «sussistenza
dell’impedimento puntuale, valevole hic et nunc per l’udienza del 24
giugno 2010, dato dal Consiglio dei ministri e dal viaggio di Stato in
Canada». L’imputato nel giudizio principale chiarisce che
l’attestazione della Presidenza del Consiglio è stata prodotta al
solo fine di indicare, per la prosecuzione del giudizio, i giorni del 21
e del 28 luglio, date che però il Tribunale rimettente non avrebbe
neppure preso in considerazione, sollevando invece direttamente – e
quindi prematuramente – la questione di legittimità costituzionale
della disciplina censurata. In
secondo luogo, l’imputato nel giudizio principale rileva che, ove pure
«si ritenesse che la produzione dell’attestazione […] equivalga a
una richiesta di applicazione della stessa, pur in presenza di un
legittimo impedimento valido ed operante per il giorno dell’udienza in
cui avviene detta produzione», tale attestazione si è limitata ad
indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo di poco più
di un mese, ben inferiore quindi al periodo massimo di sei mesi previsto
dalla disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe quindi avuto, nel
giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la questione di
legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata in relazione
alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè ad una
disciplina che produce una sospensione del dibattimento per poco più di
un mese, mentre il giudice a quo «discetta in modo astratto ed
impreciso di “una sorta di temporanea esenzione dalla giurisdizione
penale destinata a perdurare per tutto il tempo in cui l’incarico
governativo viene ad essere ricoperto”». Nel
merito, la parte privata sostiene che la questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Tribunale rimettente sia manifestamente
infondata per le ragioni indicate, con argomenti testualmente identici,
nell’atto di costituzione relativo al giudizio di cui al reg. ord. n.
173 del 2010. 3.3.2.
– In data 22 novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha
depositato memoria illustrativa, insistendo perché la questione di
legittimità costituzionale sia dichiarata non fondata. La parte privata
illustra le vicende del processo a quo, in relazione alla celebrazione
delle udienze e alle richieste di rinvio, riproducendo le medesime
argomentazioni svolte nelle memorie riferite ai giudizi di cui al reg.
ord. nn. 173 e 180 del 2010. Considerato
in diritto 1.
– Il Tribunale di Milano, con tre distinte ordinanze della sezione I
penale (reg. ord. n. 173 del 2010), della sezione X penale (reg. ord. n.
180 del 2010) e del Giudice per le indagini preliminari (reg. ord. n.
304 del 2010), solleva questione di legittimità costituzionale della
legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a
comparire in udienza). In particolare, la sezione X ha censurato
l’intero testo della legge n. 51 del 2010, mentre il Giudice per le
indagini preliminari ha censurato il solo articolo 1 e la sezione I
soltanto i commi 1, 3 e 4 di tale articolo. Tutte
le ordinanze di rimessione sollevano questione di legittimità
costituzionale della predetta disciplina in quanto essa introdurrebbe,
con legge ordinaria, una prerogativa in favore dei titolari di cariche
governative, in contrasto con il principio di eguaglianza di cui
all’art. 3 della Costituzione e con l’art. 138 Cost. Tali
disposizioni costituzionali sono entrambe esplicitamente indicate quali
parametri violati nell’ordinanza di rimessione della sezione X e
risultano implicitamente evocati, in congiunzione fra loro, anche nelle
altre due ordinanze, benché queste ultime, testualmente, richiamino
soltanto l’art. 138 Cost. La sezione X, inoltre, censura la legge n.
51 del 2010 anche in relazione all’art. 3 Cost., considerato
autonomamente e sotto il profilo della ragionevolezza. 1.1.
– La legge n. 51 del 2010 disciplina il legittimo impedimento a
comparire in udienza, ai sensi dell’art. 420-ter del codice di
procedura penale, del Presidente del Consiglio dei ministri (art. 1,
comma 1) e dei ministri (art. 1, comma 2), in qualità di imputati. In
particolare, in base all’art. 1, comma 3, di tale legge, il giudice,
su richiesta di parte, rinvia il processo ad altra udienza quando
ricorrono le ipotesi di impedimento a comparire individuate dal comma 1
(per il Presidente del Consiglio) e dal comma 2 (per i ministri) della
medesima legge. In base a tale disciplina, costituisce legittimo
impedimento «il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni
previste dalle leggi o dai regolamenti e in particolare dagli articoli
5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive
modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30 luglio
1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal regolamento interno del
Consiglio dei ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio
dei Ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.
268 del 15 novembre 1993, e successive modificazioni, delle relative
attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività
comunque coessenziale alle funzioni di Governo». Inoltre, l’art. 1,
comma 4, della medesima legge, dispone che «ove la Presidenza del
Consiglio dei Ministri attesti che l’impedimento è continuativo e
correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge, il
giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che
non può essere superiore a sei mesi». L’art. 1, comma 5, della legge
n. 51 del 2010 chiarisce che «il corso della prescrizione rimane
sospeso per l’intera durata del rinvio». Tale disciplina si applica
«anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla
data di entrata in vigore della» medesima legge (art. 1, comma 6) e «fino
alla data di entrata in vigore della legge costituzionale recante la
disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei
Ministri e dei Ministri, nonché della disciplina attuativa delle
modalità di partecipazione degli stessi ai processi penali e, comunque,
non oltre diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente
legge, salvi i casi previsti dall’articolo 96 della Costituzione, al
fine di consentire al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai
Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla
Costituzione e dalla legge» (art. 2). 1.2.
– I giudici a quibus ritengono, in particolare, che la disciplina
censurata individui con formule generiche e indeterminate le attività
costituenti legittimo impedimento del titolare di una carica governativa
e sottragga al giudice il potere di valutare in concreto
l’impossibilità a comparire connessa allo specifico impegno addotto,
soprattutto nell’ipotesi di impedimento continuativo, nella quale
l’imputato potrebbe ottenere il rinvio mediante un «meccanismo di
autocertificazione» di legittimo impedimento. Ciò costituirebbe, ad
avviso dei rimettenti, una «presunzione assoluta di impedimento»,
collegata allo «status permanente» della titolarità della carica, o
comunque una prerogativa o immunità del titolare, la quale, come ha
stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 262 del 2009, non
può essere introdotta con legge ordinaria. L’Avvocatura
generale dello Stato e la difesa dell’imputato nei giudizi principali
escludono che la disciplina censurata sia costituzionalmente
illegittima, osservando, in particolare, come essa sia diretta ad «integrare»
la disciplina processuale comune, contenuta nell’art. 420-ter cod.
proc. pen., mediante una «tipizzazione» delle attività di governo che
costituiscono legittimo impedimento a comparire in udienza. 2.
– In ragione della loro connessione oggettiva, i giudizi devono essere
riuniti, per essere congiuntamente trattati e decisi con un’unica
pronuncia. 3.
– Devono essere preliminarmente esaminati i profili che attengono
all’ammissibilità delle questioni sollevate. 3.1.
– Vanno dichiarate inammissibili le censure prospettate dalla sezione
X (reg. ord. n. 180 del 2010) e dal Giudice per le indagini preliminari
(reg. ord. n. 304 del 2010) del Tribunale di Milano, nella parte in cui
si riferiscono all’art. 1, commi 2, 5 e 6, nonché all’art. 2 della
legge n. 51 del 2010. Le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 2, della legge censurata non assumono rilevanza nei
giudizi a quibus, nei quali tale disposizione non può trovare
applicazione, in quanto riferita esclusivamente ai ministri e non al
Presidente del Consiglio dei ministri, cioè alla carica di cui è
titolare l’imputato nei giudizi principali. Le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 1, commi 5 e 6, e dell’art. 2 della legge
n. 51 del 2010 sono inammissibili, atteso che tali norme non risultano
in alcun modo investite dalle censure svolte nelle motivazioni delle
ordinanze di rimessione. 3.2.
– Vanno disattese le eccezioni dell’Avvocatura generale dello Stato
e della difesa della parte privata, con le quali si deduce
l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
riferite all’art. 1, commi 1, 3 e 4, della legge n. 51 del 2010. 3.2.1.
– La difesa della parte privata e l’Avvocatura generale dello Stato
eccepiscono, innanzitutto, relativamente a tutti e tre i giudizi, la
insufficiente e lacunosa descrizione, compiuta dai giudici a quibus,
delle fattispecie sottoposte al loro esame. Le denunciate carenze
atterrebbero, in particolare, alla mancata indicazione del tipo di reati
cui si riferisce l’imputazione, del luogo e data di commissione degli
stessi, delle eventuali ipotesi di concorso con altre persone, della
condizione soggettiva che legittima l’applicazione della norma
censurata e dello stato in cui si trova il processo che si sta
celebrando dinanzi ai giudici a quibus. L’eccezione
non è fondata. In
primo luogo, va rilevato che l’ordinanza di rimessione della sezione X
del Tribunale di Milano (reg. ord. n. 180 del 2010) contiene tutte le
informazioni di cui si lamenta la mancanza. In secondo luogo, le altre
due ordinanze di rimessione (reg. ord. n. 173 e n. 304 del 2010)
indicano quale sia la condizione soggettiva che legittima
l’applicazione della disciplina censurata (cioè la carica di
Presidente del Consiglio dei ministri rivestita dall’imputato) e
chiariscono che la richiesta di rinvio si riferisce ad una «udienza»
disposta nel corso di un processo penale. Infine, l’indicazione del
tipo, luogo e data di commissione dei reati contestati non costituisce
un elemento necessario per la valutazione della rilevanza della
questione sollevata, atteso che la disciplina censurata dispone la
propria applicabilità a tutti i processi penali, anche in corso, senza
distinguere in base alle caratteristiche del reato commesso, salvo il
caso, pacificamente escluso dai rimettenti e dalla stessa parte privata,
di applicazione dell’art. 96 Cost. 3.2.2.
– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, inoltre, che i
giudici rimettenti avrebbero dovuto preliminarmente valutare la
richiesta di rinvio dell’udienza ai sensi della norma generale di cui
all’art. 420-ter cod. proc. pen. e, solo in caso di ritenuta
inapplicabilità di tale disposizione, essi avrebbero dovuto verificare
l’applicabilità della norma speciale censurata. Ad avviso della
difesa dello Stato, la questione sarebbe, pertanto, irrilevante, perché
il giudice avrebbe potuto risolverla a prescindere dalla norma
censurata. L’eccezione
non è fondata. Il
giudice non avrebbe potuto, applicando soltanto l’art. 420-ter cod.
proc. pen., ignorare la disciplina censurata, che regola la fattispecie
sottoposta al suo esame. Alla luce del comune regime processuale, il
giudice avrebbe potuto rinviare l’udienza, riconoscendo l’assoluta
impossibilità a comparire dovuta allo specifico impegno istituzionale
addotto, ma in tal caso il rinvio sarebbe stato comunque subordinato
all’esito di un accertamento giudiziale, che i rimettenti ritengono di
non poter compiere a causa della intervenuta disciplina speciale, che
proprio per tale ragione essi hanno censurato. 3.2.3.
– La difesa della parte privata eccepisce, poi, l’inammissibilità
perdifetto di rilevanza in concreto della questione sollevata. Viene
osservato, al riguardo, che nei giudizi a quibus il Presidente del
Consiglio dei ministri ha addotto sia un impedimento puntuale per il
giorno dell’udienza, sia un impedimento continuativo, attestato dalla
Presidenza del Consiglio. Ad avviso della difesa dell’imputato nei
giudizi principali, l’impedimento puntuale sarebbe stato prospettato
per ottenere il rinvio dell’udienza specifica in relazione alla quale
è stato presentato, mentre l’attestato di impedimento continuativo
sarebbe stato prodotto solo ai fini della individuazione delle date
utili per la prosecuzione del giudizio. Di conseguenza, ad avviso della
parte privata, i giudici rimettenti avrebbero dovuto, prima, valutare
l’impedimento puntuale ai fini del rinvio dell’udienza e, solo
successivamente, «sindacare la fondatezza o meno della richiesta di
rinvio per l’ulteriore periodo indicato con le modalità previste
dalla legge in discussione». Al contrario, secondo la difesa
dell’imputato, i giudici a quibus avrebbero sollevato la questione di
legittimità costituzionale della disciplina censurata immediatamente e,
pertanto, «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva
applicazione» alla medesima. L’eccezione
non è fondata. In
primo luogo, va osservato che il giudice non è chiamato ad applicare la
disciplina censurata solo nel caso in cui venga addotto dall’imputato
un impedimento continuativo, mediante l’attestato della Presidenza del
Consiglio dei ministri, previsto dall’art. 1, comma 4, della legge n.
51 del 2010, ma anche quando sia dedotto un impegno specifico e
puntuale, che il giudice deve valutare sulla base dell’art. 1, commi 1
e 3, della medesima legge. Queste ultime, quindi, sono disposizioni in
relazione alle quali la questione di legittimità costituzionale
sollevata deve ritenersi comunque rilevante. Inoltre, l’attestato
della Presidenza del Consiglio dei ministri, presentato nei giudizi a
quibus, comprende in realtà anche il giorno dell’udienza cui si
riferisce la richiesta di rinvio. Esso, pertanto, non rileva nei giudizi
principali solo ai fini della programmazione delle udienze future, ma
anche ai fini del rinvio della specifica udienza nel corso della quale
è stato presentato. Ne deriva che, sotto il profilo considerato, è
rilevante la questione di legittimità costituzionale sia dei commi 1 e
3 dell’art. 1 della legge n. 51 del 2010, sia del comma 4 del medesimo
articolo. 3.2.4.
– La difesa della parte privata eccepisce, ancora, l’inammissibilità
delle questioni sollevate per difetto di rilevanza, asserendoche, nei
giudizi a quibus, l’attestazione della Presidenza del Consiglio si è
limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo
inferiore al periodo massimo di sei mesi previsto dalla disciplina
censurata. Alla luce di ciò, secondo la difesa dell’imputato, la
disciplina censurata avrebbe ricevuto una «applicazione parziale» e la
questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere
conseguentemente formulata in relazione alla disciplina che ha avuto
concreta applicazione, determinando la sospensione del dibattimento per
il tempo indicato in concreto nell’attestazione, e non per il tempo
indicato in astratto dalla norma. Al contrario, la difesa
dell’imputato lamenta che i giudici a quibus avrebbero «discett[ato]
in astratto di “rilevanti periodi di tempo” in cui potrebbe essere
fatto valere il legittimo impedimento». L’eccezione
non è fondata. I
giudici rimettenti dubitano della legittimità costituzionale della
disciplina censurata in quanto consente all’imputato di dedurre un
impedimento continuativo per un «rilevante periodo di tempo». Tale
formula si adatta sia al tempo massimo di sei mesi previsto dalla norma
in astratto, sia al tempo inferiore, ma comunque significativo, previsto
dall’attestato che in concreto è stato prodotto nei giudizi
principali, in evidente applicazione, nel caso di specie, della norma
censurata. 3.2.5.
– Sia l’Avvocatura generale dello Stato, sia la difesa della parte
privata, infine, eccepiscono l’inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale della disciplina censurata, sollevata dalla
sezione X del Tribunale di Milano (reg. ord. n. 180 del 2010), in
relazione all’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza.
Viene lamentato, in particolare, che il giudice a quo non avrebbe «esplicitato
i motivi che fonderebbero la predetta violazione» e che mancherebbe «nell’ordinanza
di rimessione qualunque valutazione relativa al tertium comparationis
[…] nonché alla ragionevolezza del bilanciamento di interessi operato»
dalla disciplina censurata. L’eccezione
non è fondata. In
primo luogo, il giudice rimettente motiva la censura di
irragionevolezza, osservando che «il rinvio [dell’udienza] è imposto
da ragioni genericamente indicate e insindacabili dalla autorità
giudiziaria e si traduce in una causa automatica di rinvio del
dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del diritto di difesa,
per il quale l’istituto del legittimo impedimento a comparire è
previsto». In secondo luogo, gli argomenti in base ai quali il
rimettente afferma esservi lesione degli artt. 3 e 138 Cost., tra cui in
particolare il carattere generale e automatico delle presunzioni di
legittimo impedimento introdotte dalla disciplina censurata, sorreggono
anche la prospettata irragionevolezza di quest’ultima. Né, in tale
ultimo caso, si pone un problema di indicazione del tertium
comparationis. 4.
– Al fine di decidere nel merito le questioni sollevate dai giudici a
quibus, è necessario, preliminarmente, inquadrare il problema generale
del legittimo impedimento del titolare di un organo costituzionale, alla
luce dei principi al riguardo affermati da questa Corte. 4.1.
– Sotto tale profilo assumono rilievo, innanzitutto, le pronunce con
le quali è stata valutata la legittimità costituzionale di norme sulla
sospensione dei processi per le alte cariche dello Stato (sentenze n.
262 del 2009 e n. 24 del 2004). Questa Corte ha stabilito che una
presunzione assoluta di legittimo impedimento del titolare di una carica
governativa, quale meccanismo generale e automatico introdotto con legge
ordinaria, è costituzionalmente illegittima, in quanto rivolta a
tutelare lo stesso mediante una deroga al regime processuale comune e,
quindi, a creare una prerogativa, in violazione degli artt. 3 e 138
Cost. Una simile presunzione, secondo il ragionamento sviluppato nella
sentenza n. 262 del 2009, costituisce deroga e non applicazione delle
regole generali sul processo, le quali, in particolare, consentono di
differenziare «la posizione processuale del componente di un organo
costituzionale solo per lo stretto necessario, senza alcun meccanismo
automatico e generale». Devono
poi essere considerate le pronunce sui conflitti di attribuzione
proposti dalla Camera dei deputati nei confronti dell’autorità
giudiziaria e riguardanti il mancato riconoscimento, da parte di
quest’ultima, di legittimi impedimenti dell’imputato consistenti
nella partecipazione ai lavori parlamentari (sentenze n. 451 del 2005,
n. 284 del 2004, n. 263 del 2003, n. 225 del 2001). Questa Corte ha
chiarito che la posizione dell’imputato parlamentare «non è
assistita da speciali garanzie costituzionali» e nei suoi confronti
trovano piena applicazione «le generali regole del processo» (sentenza
n. 225 del 2001). Essa ha tuttavia anche affermato che,
nell’applicazione di tali comuni regole processuali, il giudice deve
esercitare il suo potere di «apprezzamento degli impedimenti invocati»
dall’imputato parlamentare, «tene[ndo] conto non solo delle esigenze
delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi,
costituzionalmente tutelati, di altri poteri» (sentenza n. 225 del
2001), operando quindi un «ragionevole bilanciamento fra le due
esigenze […] della speditezza del processo e della integrità
funzionale del Parlamento» (sentenza n. 263 del 2003), in particolare
programmando «il calendario delle udienze in modo da evitare
coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari»
(sentenza n. 451 del 2005). Non vi può essere, dunque, applicazione di
regole derogatorie, ma il diritto comune deve applicarsi secondo il
principio di leale collaborazione fra i poteri dello Stato. 4.2.
– Alla luce di tali principi, è rilevante, ai fini della verifica
della legittimità costituzionale della disciplina censurata, stabilire
se quest’ultima, a prescindere dal suo carattere temporaneo,
rappresenti una deroga al regime processuale comune, che è in
particolare quello previsto dall’art. 420-ter cod. proc. pen. Esso
rappresenta il termine di riferimento per valutare se la normativa
censurata, derogando alle ordinarie norme processuali, introduca, con
legge ordinaria, una prerogativa la cui disciplina è riservata alla
Costituzione, violando il principio della eguale sottoposizione dei
cittadini alla giurisdizione e ponendosi, quindi, in contrasto con gli
artt. 3 e 138 Cost. La disciplina oggetto di censura sarà dunque da
ritenersi illegittima se, e nella misura in cui, alteri i tratti
essenziali del regime processuale comune. In base ad esso,
l’impedimento dedotto dall’imputato non può essere generico e il
rinvio dell’udienza da parte del giudice non può essere automatico.
Sotto il primo profilo, l’imputato ha l’onere di specificare
l’impedimento, potendo egli addurre come tale un preciso e puntuale
impegno e non già una parte della propria attività genericamente
individuata o complessivamente considerata. Sotto il secondo profilo, il
giudice deve valutare in concreto, ai fini del rinvio dell’udienza, lo
specifico impedimento addotto. 5.
– Per quanto le censure dei giudici a quibus si riferiscano alle
disposizioni della legge n. 51 del 2010 considerate nel loro insieme, e
sebbene tali disposizioni rispondano ad un comune motivo ispiratore,
tuttavia la disciplina censurata non si presenta come unitaria sotto il
profilo strutturale. Essa,
infatti, si articola in più componenti, ciascuna delle quali è
suscettibile di ricevere una autonoma qualificazione dal punto di vista
della coerenza con la disciplina processuale comune e, quindi, anche una
diversa valutazione dal punto di vista della verifica di legittimità
costituzionale. Questa deve essere condotta separatamente, in relazione
alle disposizioni contenute nei tre distinti commi dell’art. 1 della
legge n. 51 del 2010, cui si riferiscono le censure dei giudici
rimettenti: il comma 1, che indica le attribuzioni del Presidente del
Consiglio dei ministri costituenti legittimo impedimento; il comma 3,
che disciplina il rinvio dell’udienza, da parte del giudice, quando
ricorrono le ipotesi previste dai precedenti commi; il comma 4, che
regola l’ipotesi di impedimento continuativo e attestato dalla
Presidenza del Consiglio dei ministri. 5.1.
– L’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010 prevede quanto
segue: «Per il Presidente del Consiglio dei Ministri costituisce
legittimo impedimento, ai sensi dell’articolo 420-ter del codice di
procedura penale, a comparire nelle udienze dei procedimenti penali,
quale imputato, il concomitante esercizio di una o più delle
attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in particolare
dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e
successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto
legislativo 30 luglio 1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal
regolamento interno del Consiglio dei Ministri, di cui al decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15 novembre 1993, e successive
modificazioni, delle relative attività preparatorie e consequenziali,
nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo». Per
la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni
sollevate dai giudici a quibus non sono fondate, nei termini di seguito
precisati. Ad
avviso dei rimettenti, la disciplina censurata, anziché identificare
alcune ipotesi rigorosamente e tassativamente circoscritte di
impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, contemplerebbe
una presunzione assoluta di legittimo impedimento riferita ad una serie
ampia e indeterminata di funzioni, in definitiva coincidenti con
l’intera attività del titolare della carica governativa. Non
vi è dubbio che, ove fosse in tal modo intesa, la disposizione in esame
sarebbe illegittima, in quanto derogatoria rispetto al regime
processuale comune e, quindi, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost.,
per le ragioni indicate da questa Corte nella sentenza n. 262 del 2009.
Tuttavia, una disposizione legislativa può essere dichiarata
illegittima solo quando non sia possibile attribuire ad essa un
significato compatibile con la Costituzione, cioè, nella fattispecie in
esame, ove non sia possibile ricondurla nel solco della disciplina
comune, interpretandola in conformità con l’istituto processuale
generale di cui è espressione l’art. 420-ter cod. proc. pen. Ciò
è possibile in considerazione del fatto che l’art. 1, comma 1, della
legge n. 51 del 2010 richiama espressamente l’art. 420-ter cod. proc.
pen., nonché del fatto che, con la disposizione censurata, il
legislatore sembra aver voluto introdurre – come risulta dai lavori
preparatori – una «mera norma interpretativa dell’ambito di
applicazione di un istituto processuale» (relazione in aula, Camera dei
deputati, Assemblea, seduta del 25 gennaio 2010, e Senato della
Repubblica, Assemblea, 347a seduta pubblica antimeridiana, martedì 9
marzo 2010). Come
ha sostenuto la difesa dell’imputato, sia negli atti scritti, sia nel
corso dell’udienza pubblica, la disposizione censurata «non comporta
una presunzione assoluta di legittimo impedimento» e «non impone alcun
automatismo». Essa introduce un criterio volto ad orientare il giudice
nell’applicazione dell’art. 420-ter cod. proc. pen., e segnatamente
del comma 1 di tale disposizione, mediante l’individuazione, in
astratto, delle categorie di attribuzioni governative a tal fine
rilevanti. Il legislatore, peraltro, sembra aver recepito al riguardo,
sviluppandolo, un orientamento della Corte di cassazione, secondo cui
costituiscono legittimo impedimento, in base all’art. 420-ter cod.
proc. pen., le attività del titolare di una carica governativa che
siano «coessenziali alla funzione tipica del Governo» (sentenza della
Corte di cassazione, sez. sesta penale, 9 febbraio 2004 – 9 marzo
2004, n. 10773). Questa espressione è ripresa dall’art. 1, comma 1,
della legge n. 51 del 2010 e assurge ad elemento qualificativo di tutte
le ipotesi di legittimo impedimento da tale disposizione previste, come
è dimostrato dalla circostanza che le attività coessenziali alla
funzione di governo sono poste a chiusura della formulazione normativa e
che l’avverbio «comunque» introduce un collegamento fra il requisito
della coessenzialità e le attribuzioni governative previste da leggi e
regolamenti (genericamente e specificamente indicate). Deve pertanto
ritenersi che, in base a questo criterio posto dal legislatore, le
categorie di attività qualificate, in astratto, come legittimo
impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri sono solo quelle
coessenziali alle funzioni di Governo, che siano previste da leggi o
regolamenti (e in particolare dalle fonti normative espressamente citate
nella disposizione censurata), nonché quelle rispetto ad esse
preparatorie (cioè specificamente preordinate) e consequenziali (cioè
immediatamente successive e strettamente conseguenti). Simile
criterio legislativo è compatibile con i tratti essenziali del regime
processuale comune. La disposizione censurata non consente al Presidente
del Consiglio dei ministri di addurre come impedimento il generico
dovere di esercitare le attribuzioni da essa previste, occorrendo
sempre, secondo la logica dell’art. 420-ter cod. proc. pen., che
l’imputato specifichi la natura dell’impedimento, adducendo un
preciso e puntuale impegno riconducibile alle ipotesi indicate. Ciò
naturalmente vale anche per le attività «preparatorie e consequenziali»,
a proposito delle quali deve ritenersi che l’onere di specificazione,
sempre gravante sull’imputato, si riferisca sia all’impedimento
principale (l’esercizio di attribuzione coessenziale), sia a quello
accessorio (l’attività preparatoria o consequenziale). In altri
termini, il Presidente del Consiglio dei ministri dovrà indicare un
preciso e puntuale impegno, che abbia carattere preparatorio o
consequenziale rispetto ad altro preciso e puntuale impegno, quest’ultimo
riconducibile ad una attribuzione coessenziale alla funzione di governo
prevista dall’ordinamento. Né
può ritenersi che il criterio posto dal legislatore sia irragionevole o
sproporzionato, dal momento che esso è ancorato alla elaborazione
giurisprudenziale e non copre l’intera attività del titolare della
carica, ma solo le attribuzioni che possano essere qualificate in
termini di coessenzialità rispetto alle funzioni di governo. Tale
criterio legislativo, infine, rispetto alla disciplina già ricavabile
dall’art. 420-ter cod. proc. pen., ha un effetto di chiarificazione
della portata dell’istituto processuale comune, nelle ipotesi in cui
esso debba trovare applicazione in riferimento ad impedimenti
consistenti nell’esercizio di funzioni di governo. In termini
negativi, il giudice non riconoscerà come impedimenti legittimi, in
applicazione del criterio legislativo, impegni politici non qualificati,
cioè non riconducibili ad attribuzioni coessenziali alla funzione di
governo, pur previste da leggi o regolamenti. In termini positivi, ove
venga addotto un impedimento riconducibile a tale tipologia di
attribuzioni, il giudice non potrà disconoscerne il rilievo in
astratto, fermo restando il suo potere, non sottrattogli dalla
disposizione in esame, di valutare in concreto lo specifico impedimento
addotto. Deve
dunque concludersi che non sono fondate le questioni di legittimità
costituzionale sollevate, per la parte in cui si riferiscono all’art.
1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, in quanto tale disposizione
venga interpretata in conformità con l’art. 420-ter, comma 1, cod.
proc. pen. 5.2.
– L’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010 dispone: «Il
giudice, su richiesta di parte, quando ricorrono le ipotesi di cui ai
commi precedenti rinvia il processo ad altra udienza». Per
la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni
sollevate dai giudici a quibus sono fondate, nei termini di seguito
precisati. L’art.
1, comma 3, della legge censurata regola i poteri del giudice in ordine
all’accertamento del legittimo impedimento, ai fini del conseguente
rinvio dell’udienza, in relazione alla quale tale impedimento è
dedotto. Occorre stabilire se la disciplina dettata da tale disposizione
sia conforme alla corrispondente regolamentazione contenuta nell’art.
420-ter, comma 1, cod. proc. pen., secondo la quale il giudice rinvia
l’udienza quando «risulta che l’assenza è dovuta ad assoluta
impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro
legittimo impedimento». La norma censurata deve considerarsi legittima,
in altri termini, a condizione che essa non sottragga al giudice, in
relazione alle specifiche ipotesi di impedimento del titolare di
funzioni di governo, i poteri di valutazione dell’impedimento addotto,
che al giudice stesso sono riconosciuti in base al comune regime
processuale. L’Avvocatura
generale dello Stato e la parte privata hanno sostenuto che la
disciplina censurata non abbia privato il giudice del potere di
valutazione dell’impedimento, previsto dall’art. 420-ter, comma 1,
cod. proc. pen. Il giudice conserverebbe sia il potere di valutare la
prova della sussistenza in fatto dell’impedimento, sia quello di
accertare che tale impedimento «rientri fra le ipotesi previste» dalle
disposizioni di cui ai commi 1 e 2 della legge censurata. Ulteriori
poteri di controllo risulterebbero, invece, preclusi al giudice,
indipendentemente dalla legge n. 51 del 2010. Sarebbe infatti il
principio della separazione dei poteri ad impedire che il giudice possa
«sindacare il merito dell’attività di governo», valutando «le
ragioni politiche sottese all’esercizio» delle attività del
Presidente del Consiglio dei ministri, carica cui sarebbe oltretutto da
riconoscere una «nuova fisionomia» in quanto ricoperta da «persona
che ha avuto direttamente la fiducia e l’investitura dal popolo».
Tali affermazioni ricostruiscono correttamente gli effetti della
disposizione di cui all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010,
ma non altrettanto correttamente colgono il significato e la portata
dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., della posizione
costituzionale del Presidente del Consiglio dei ministri e del principio
della separazione dei poteri. Va
osservato che l’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, subordina
il rinvio dell’udienza, da parte del giudice, esclusivamente ad un
duplice riscontro. Nel verificare che «ricorr[a]no le ipotesi di cui ai
precedenti commi», il giudice dovrebbe infatti limitarsi ad accertare,
da un lato, che l’impegno dedotto dall’imputato come impedimento
sussista realmente in punto di fatto, e, dall’altro lato, che esso sia
riconducibile ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo
previste da leggi o regolamenti (o abbia carattere preparatorio o
consequenziale rispetto ad esse). Ma tali accertamenti non esauriscono
lo spettro dei poteri di valutazione dell’impedimento, che sono
esercitati dal giudice in base alla disciplina generale di cui
all’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. Secondo tale disciplina,
infatti, spetta al giudice, ai fini del rinvio dell’udienza, valutare
in concreto non solo la sussistenza in fatto dell’impedimento, ma
anche il carattere assoluto e attuale dello stesso. Ciò implica in
particolare, con riferimento alle ipotesi in esame, il potere del
giudice di valutare, caso per caso, se lo specifico impegno addotto dal
Presidente del Consiglio dei ministri, pur quando riconducibile in
astratto ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo ai sensi
della legge censurata, dia in concreto luogo ad impossibilità assoluta
(anche alla luce del necessario bilanciamento con l’interesse
costituzionalmente rilevante a celebrare il processo) di comparire in
giudizio, in quanto oggettivamente indifferibile e necessariamente
concomitante con l’udienza di cui è chiesto il rinvio. Tale potere di
apprezzamento in concreto dell’impedimento, che è elemento essenziale
della disciplina comune del legittimo impedimento, non è però previsto
dalla disposizione censurata, né esso è ricavabile in via
interpretativa, atteso che la norma in questione non richiama
espressamente l’art. 420-ter cod. proc. pen. e detta una disciplina
che, sul punto, sostituisce e non integra quella contenuta nella
predetta norma del codice di rito. La mancanza di tale elemento,
pertanto, attribuisce all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010
un carattere derogatorio rispetto al diritto comune. Per i motivi già
chiariti, ciò si traduce in un vizio di costituzionalità di tale
disposizione, che deve essere pertanto dichiarata illegittima nella
parte in cui non prevede siffatto potere di valutazione in concreto
dell’impedimento. Né
può ritenersi che l’esercizio di un simile potere, nelle ipotesi in
cui l’impedimento consista nello svolgimento di funzioni di governo,
sia di per sé lesivo delle prerogative del Presidente del Consiglio dei
ministri, o si ponga in contrasto con il principio della separazione dei
poteri. Va detto, innanzitutto, che la disciplina elettorale, in base
alla quale i cittadini indicano il «capo della forza politica» o il «capo
della coalizione», non modifica l’attribuzione al Presidente della
Repubblica del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei
ministri, operata dall’art. 92, secondo comma, Cost., né la posizione
costituzionale di quest’ultimo. A prescindere da ciò, quando il
giudice valuta in concreto, in base alle ordinarie regole del processo,
l’impedimento consistente nell’esercizio di funzioni governative, si
mantiene entro i confini della funzione giurisdizionale e non esercita
un sindacato di merito sull’attività del potere esecutivo, né, più
in generale, invade la sfera di competenza di altro potere dello Stato. È
vero, peraltro, che in simili ipotesi l’esercizio della funzione
giurisdizionale ha una incidenza indiretta sull’attività del titolare
della carica governativa, incidenza che è obbligo del giudice ridurre
al minimo possibile, tenendo conto del dovere dell’imputato di
assolvere le funzioni pubbliche assegnategli. Il principio della
separazione dei poteri non è, dunque, violato dalla previsione del
potere del giudice di valutare in concreto l’impedimento, ma,
eventualmente, soltanto dal suo cattivo esercizio, che deve rispondere
al canone della leale collaborazione. Quest’ultimo principio ha
carattere bidirezionale, nel senso che esso riguarda anche il Presidente
del Consiglio dei ministri, la programmazione dei cui impegni, in quanto
essi si traducano in altrettante cause di legittimo impedimento, è
suscettibile a sua volta di incidere sullo svolgimento della funzione
giurisdizionale. Trova pertanto applicazione, anche nel caso del
titolare di funzione governativa, quanto questa Corte ha affermato con
riferimento al legittimo impedimento di membri del Parlamento, tanto più
che, a differenza di questi ultimi, il Presidente del Consiglio dei
ministri ha il potere di programmare una quota significativa degli
impegni che possono costituire legittimo impedimento (sentenze n. 451
del 2005, n. 284 del 2004, n. 263 del 2003, n. 225 del 2001). La leale
collaborazione deve esplicarsi mediante soluzioni procedimentali,
ispirate al coordinamento dei rispettivi calendari. Per un verso, il
giudice deve definire il calendario delle udienze tenendo conto degli
impegni del Presidente del Consiglio dei ministri riconducibili ad
attribuzioni coessenziali alla funzione di governo e in concreto
assolutamente indifferibili. Per altro verso, il Presidente del
Consiglio dei ministri deve programmare i propri impegni, tenendo conto,
nel rispetto della funzione giurisdizionale, dell’interesse alla
speditezza del processo che lo riguarda e riservando a tale scopo spazio
adeguato nella propria agenda. Deve,
dunque, concludersi che le questioni di legittimità costituzionale
sollevate dai giudici rimettenti, in quanto si riferiscono all’art. 1,
comma 3, della legge n. 51 del 2010, sono fondate, nella parte in cui
tale disposizione non prevede il potere del giudice di valutare in
concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen.,
l’impedimento addotto. 5.3.
– L’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010 dispone: «Ove la
Presidenza del Consiglio dei Ministri attesti che l'impedimento è
continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla
presente legge, il giudice rinvia il processo a udienza successiva al
periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi». Per
la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni
sollevate dai giudici a quibus sono fondate. La
norma in esame, a differenza di quelle di cui ai commi 1 e 2 del
medesimo art. 1, non opera un diretto rinvio all’art. 420-ter cod.
proc. pen. e introduce nell’ordinamento una peculiare figura di
legittimo impedimento consistente nell’esercizio di funzioni di
governo, connotata dalla continuatività dell’impedimento stesso e
dalla attestazione di esso da parte della Presidenza del Consiglio dei
ministri. Tali elementi rappresentano tuttavia una alterazione, e non già
una integrazione o applicazione, della disciplina dell’istituto
generale di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. Si tratta, pertanto,
di una disposizione derogatoria del regime processuale comune, che
introduce una prerogativa in favore del titolare della carica, in
contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost. In
primo luogo, l’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010,
diversamente da quanto disposto dall’art. 420-ter, comma 1, cod. proc.
pen., prevede che l’imputato possa dedurre, anziché un impedimento
puntuale e riferito ad una specifica udienza, un impedimento
continuativo riferito a tutte le udienze eventualmente programmate o
programmabili entro un determinato intervallo di tempo, che non può
essere superiore a sei mesi (ma la norma non vieta che alla scadenza
possa essere rinnovato l’attestato di impedimento continuativo). In
tal modo, la disposizione in esame esclude, almeno parzialmente,
l’onere di specificazione dell’impedimento che, ai sensi dell’art.
420-ter, comma 1, cod. proc. pen., grava sull’imputato. Essa consente
infatti a quest’ultimo di dedurre come impedimento il generico dovere
di svolgere funzioni di governo in un determinato periodo di tempo. Ciò
rende impossibile la verifica del giudice circa la sussistenza e
consistenza di uno specifico e preciso impedimento. Né può ritenersi
che l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri debba
specificare, giorno per giorno, tutti gli impegni che rendono
assolutamente impossibile la presenza in udienza dell’imputato nel
corso del periodo di tempo considerato. Una simile interpretazione della
disposizione renderebbe inutile la previsione di una apposita figura di
impedimento continuativo e, del resto, non è stata seguita, in sede
applicativa, dalla Presidenza del Consiglio, le cui attestazioni, nelle
fattispecie oggetto dei giudizi principali, hanno indicato succintamente
e solo in via esemplificativa alcuni degli impegni del Presidente del
Consiglio dei ministri compresi in un periodo di tempo considerato. In
secondo luogo, va osservato che il tenore testuale della disposizione in
esame ricollega l’effetto del rinvio del processo, per la durata
dell’impedimento continuativo, alla attestazione della Presidenza del
Consiglio. È previsto, infatti, che il giudice rinvia il processo non
già quando «risulti», ma «ove la Presidenza del Consiglio dei
Ministri attesti» che l’impedimento è continuativo e correlato allo
svolgimento delle funzioni di governo. In tal modo, il rinvio
costituisce un effetto automatico dell’attestazione, venendo meno il
filtro della valutazione del giudice e, più in generale, di una
valutazione indipendente e imparziale, dal momento che l’attestazione
risulta affidata ad una struttura organizzativa di cui si avvale, in
ragione della propria carica, lo stesso soggetto che deduce
l’impedimento in questione. Per
tutte queste ragioni, l’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010
produce effetti equivalenti a quelli di una temporanea sospensione del
processo ricollegata al fatto della titolarità della carica, cioè di
una prerogativa disposta in favore del titolare. Si tratta, pertanto, di
una previsione normativa costituzionalmente illegittima. PER
QUESTI MOTIVI LA
CORTE COSTITUZIONALE riuniti
i giudizi, dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge 7
aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire
in udienza); dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, della legge n.
51 del 2010, nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in
concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen.,
l’impedimento addotto; dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative
all’art. 1, commi 2, 5 e 6, e all’art. 2 della legge n. 51 del 2010,
sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 138 della Costituzione, dal
Tribunale di Milano, sezione X penale, e dal Giudice per le indagini
preliminari presso il medesimo Tribunale, con le ordinanze indicate in
epigrafe; dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative
all’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, sollevate, in
riferimento agli artt. 3 e 138 della Costituzione, dal Tribunale di
Milano, sezione I penale e sezione X penale, e dal Giudice per le
indagini preliminari presso il medesimo Tribunale, con le ordinanze
indicate in epigrafe, in quanto tale disposizione venga interpretata in
conformità con l’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 13 gennaio 2011. F.to: Ugo
DE SIERVO, Presidente Sabino
CASSESE, Redattore Maria
Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata
in Cancelleria il 25 gennaio 2011.
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